Giovanni Segantini

Autoritratto

Il 15 gennaio 1858 nasceva ad Arco Giovanni Segantini. La  sua fu un’infanzia tormentata, vissuta in una famiglia  colpita da lutti e dall’indigenza. Il padre Antonio,  ridotto alla miseria dopo il fallimento di una modesta  attività commerciale, abbandonò la famiglia per cercare  fortuna a Milano. La madre Margherita de’ Girardi, che  viveva di sussidi comunali, morì a trentasette anni.  Giovanni venne allora affidato alla sorellastra Irene che  viveva a Milano; nella grande città egli condusse una vita  oziosa e vagabonda fino ad essere internato nel  riformatorio Marchiondi.

Nel 1873 egli fu ospitato, per circa due anni, a Borgo  Valsugana dal fratellastro Napoleone, proprietario di una  bottega fotografica. È qui che forse il giovane Segantini  avvertì la sua innata vocazione per l’arte pittorica. Tornò  a Milano ed iniziò a studiare pittura frequentando i corsi  dell’Accademia delle Belle Arti di Brera. La sua  partecipazione a qualche esposizione lo fece apprezzare  nel mondo artistico milanese; il mercante d’arte Vittore  Grubicy diventò il suo mecenate.

Egli aveva conosciuto in quel periodo Bice Bugatti, che  rimarrà la sua compagna per tutta la vita e dalla quale  avrà quattro figli: Gottardo, Alberto, Mario e Bianca.

La carriera artistica di Segantini fu contrassegnata da  brillanti affermazioni in varie esposizioni e dalla  continua ricerca di nuove ispirazioni e di nuovi modi di  dipingere. Verso il 1886 egli si avvicinò a quella che poi  diventerà la sua scelta definitiva: il divisionismo. Ecco  cosa scriveva G. Segantini in una sua lettera del 1896:  “Stabilite sulla tela le linee esprimenti la mia volontà  ideale, procedo alla colorazione, dirò così, sommaria come  preparazione però più vicina alla verità che m’è  possibile; e ciò faccio con sottili pennelli piuttosto  lunghi, e incomincio a tempestare la mia tela di  pennellate sottili, secche e grasse, lasciandovi sempre  fra una pennellata e l’altra uno spazio interstizio che  riempisco coi colori complementari, possibilmente quando  il colore fondamentale è ancora fresco, acciochè il  dipinto resti più fuso.  Mescolare i colori sulla  tavolozza è una strada che conduce verso il nero; più puri  saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio  condurremo il nostro dipinto verso la luce, I’aria e la  verità” .

La vita contadina, i paesaggi di montagna, le figure  semplici del borgo, trovarono nelle tele di Segantini  splendida rappresentazione; basti ricordare alcuni suoi  capolavori: Ave Maria a trasbordo, Alla stanga, Le due  madri, Mezzogiorno sulle Alpi, il Trittico della natura.

Segantini visse in Brianza, a Savognino, nelle Alpi  giorgionesi, e infine nel suo rifugio di Maloja. Scriveva  nel 1898: “Io continuo così a lavorare alla mia opera  poetica dell’ intimo sentimento delle cose della Natura,  accarezzando col pennello i fili d’ erba, i fiori, gli  animali e l’uomo”. Nel settembre del 1899 egli salì allo  Schafberg (2.700 m. di altitudine) per lavorare al “Trittico”; è lì che venne colto da un violento attacco di   peritonite che lo portò rapidamente alla morte. Ma le sue  opere l’avevano reso immortale!

Ricordo di Giovanni Segantini
A cura del prof. Romano Turrini

Il 28 settembre 1899 moriva a Maloja, in Engadina, il pittore Giovanni Segantini. A cento anni dalla morte, Arco ed il Trentino ricordano il grande maestro del divisionismo italiano.

“Io non so cosa sia avvenuto prima della mia nascita. So che ebbi un padre e una madre e che a loro piacque farsi un nido ad Arco nel Trentino sulla riva destra della Sarca”.

Così scrive Giovanni Segantini nella sua autobiografia, vincendo la ritrosia che gli aveva impedito, fino ad allora, di parlare della sua infanzia. La famiglia del padre, Agostino Segatini, era originaria di Bussolengo, ma nella seconda metà del Settecento si era trasferita ad Ala. Antonio Segatini (nonno del pittore) viene segnato nei registri del Decanato di Ala «Veronensis nunc incola Alae»; praticava l’arte del canapino, del tessitore.
Agostino Segatini (sarà Giovanni a modificare il suo cognome in Segantini) non segue le orme paterne e si dedica alla vendita di vino, formaggio e frutta, aprendo una rivendita in via San Martino, a Trento. Egli sposa in prime nozze Maddalena Fronza ed ha diversi figli, i quali però muoiono quasi tutti bambini. Ne rimangono in vita solo due: Napoleone e Domenica, che tutti in famiglia chiamavano Irene. Essi avranno un ruolo importante nella vita del piccolo Giovanni. A 43 anni, nel 1851, Maddalena Fronza muore; Agostino nello stesso anno si sposa con Margherita de Girardi di Castello di Fiemme. La miseria però attanaglia quella famiglia; l’attività di rivendita dà scarsi guadagni, i loro pochi beni vengono pignorati, i bambini sono affidati ad una zia che abitava a Bolzano. Agostino e Margherita si trasferiscono inizialmente a Verona, poi ritornano in Trentino, e precisamente a Mori. L’amministrazione comunale della borgata concede il permesso di residenza purchè la famiglia Segatini non avanzi richieste di sussidio. Ed infatti Agostino si rivolge al Magistrato civico di Trento ottenendo un aiuto di cinque fiorini; ma quando, non riuscendo con la vendita di chincaglierie a far fronte ai bisogni della famiglia, egli si decide a chiedere un sostegno economico al comune di Mori, la famiglia Segatini viene invitata a cambiare residenza. E così nel settembre del 1856 essi arrivano ad Arco e vanno a stabilirsi in una piccola casa, appena superato il ponte sul fiume Sarca, sulla sinistra andando verso la città. Era, con tutta probabilità, l’antica sede dei gabellieri, dove si versava il dazio. Il municipio di Trento continua a fornire sussidi alla famiglia, servendosi dell’arciprete di Arco Dall’Armi per avere informazioni sicure circa le reali esigenze dei Segatini. Il 15 gennaio 1858 nasce ad Arco Giovanni Segatini.
La madre Margherita, già di salute cagionevole, soffre nel dare alla luce Giovanni e non si riprenderà più. «Io la ricordo ancora mia madre…La rivedo con l’occhio della mente quella sua figura alta, dall’incedere languido. Era bella, non come aurora o meriggio, ma come tramonto di primavera». A gravare sul misero bilancio della famiglia, sono ora le spese mediche.
Decine e decine di fatture e ricevute, e conseguenti sovvenzioni alla famiglia Segatini, sono conservate nell’Archivio storico del Comune di Arco e stanno a testimoniare il loro stato di grave indigenza. Il padre per decidere di cambiare la propria triste condizione di vita, prende con sé i figli maggiori (nel frattempo rientrati da Bolzano) e se ne va a Verona e poi a Milano. Margherita resta sola ad Arco con il figlioletto. Il piccolo Giovanni cresce abbandonato a se stesso; un giorno cade in un canale poco distante dalla casa, in via della Cinta, e viene salvato da Domenico Morghen, quando ormai lo si credeva annegato.
In rapida sequenza, accadono poi altri fatti: il ritorno del padre nel trentino, la morte per ascite della madre, a 37 anni, e l’abbandono del Trentino da parte di Giovanni (aveva sette anni) che, con il padre, raggiunge la sorellastra Irene a Milano. Agostino tornerà poi a Rovereto presso un cugino fotografo e lì morirà il 20 febbraio 1866. Nel 1867 l’imperial regia Luogotenenza di Innsbruck accorda «ad Irene Segatini ed al minore di lei fratello Giovanni Segatini il permesso di emigrazione nel regno d’Italia e quindi la dimissione dal nesso di cittadinanza austriaca». Questa decisione è comunicata il 10 ottobre 1867 alla pretura di Trento ed alla Questura di Milano; ma il pittore non ne avrà mai notizia. Seguono per Giovanni, gli anni di Milano; rinchiuso in casa, prova insofferenza per una vita che soffoca il suo bisogno di libertà. «In questo stato di cose – egli scrive in una lettera alla scrittrice Neera – non potevo a meno che inselvatichirmi, rimasi sempre irrequieto, ribelle a tutte le leggi costituite. La società coprì il mio misero corpo di fango e di fame, ma il suo fango e la sua fame non arrivarono fino a me; anzi più fango gittavano sul mio misero corpo, e più m’invigorivo nel sentimento di pietà per noi tutti miserabili». Diventa ozioso e vagabondo; viene arrestato, processato ed il 9 dicembre 1870 si aprono per lui le porte del riformatorio Marchiondi. Egli firma il registro d’ingresso con un segno di croce e diventa allievo calzolaio.
Forse fu proprio lì che il giovane Segatini svelò a chi gli era umanamente più vicino le sue grandi doti artistiche. La vita nel riformatorio non faceva che acuire nel suo cuore l’amore per la vita libera. Fortunatamente, nel 1873, il fratellastro Napoleone, che aveva aperto un negozio con annesso laboratorio fotografico a Borgo Valsugana, si mette in contatto con la sorella Irene ed avvia le pratiche per ottenere il suo affidamento. Giovanni torna quindi in Trentino. Qualche anno prima, nel 1862, Borgo era stata devastata da un furioso incendio; i racconti dei paesani colpiti da quella recente catastrofe rimangono, con tutta probabilità, impressi nell’animo del giovane; quando diventerà celebre pittore, egli donerà un suo disegno, All’arcolaio, per i colpiti dal disastroso incendio di Tione (1895). Il suo soggiorno nella vallata trentina dura fino al settembre del 1875; alla soglia dei diciotto anni gli viene « in mente di abbandonare i buoni contadini e rintracciare la sorella». Presso Irene, a Milano, trova un domicilio; poi diventa apprendista nella bottega di un decoratore, l’ex garibaldino Luigi Tettamanzi, e la sera frequenta i corsi dell’accademia di Brera.
Così, dopo aver «attraversato tutta l’eterna pianura della tristezza e del dolore» realizza i primi quadri ed ottiene alcuni importanti riconoscimenti; con il dipinto Il coro di Sant’Antonio (realizzato sopra la tela di un paracamino) viene premiato a Brera, nel 1879. Scrive lui stesso: «Non avevo certamente inteso di fare un’opera d’arte, ma semplicemente di provarmi a dipingere. Da una finestra aperta entrava un torrente di luce, che illuminava gli stalli intagliati in legno del coro: dipinsi questa parte, e la resi con efficace ricerca della luce. Qui subito compresi che, col mescolare i colori sulla tavolozza, non si otteneva né luce né aria: trovai il modo di disporli schietti e puri avvicinandoli sulla tela gli uni agli altri, nella stessa dose che avrei adoperata mescolandoli sulla tavolozza, lasciando che la retina dell’occhio li fonda guardando il dipinto a sua natural distanza». C’è, in queste riflessioni, un’intuizione di quella che sarà in seguito la scelta divisionista, ma egli si mantiene, per ora, nel solco della miglior tradizione del verismo lombardo.
Ma le medaglie non danno di che vivere ed allora egli si presenta al Marchiondi; ottiene un incarico per insegnare geometria ai giovani alunni e consegna in deposito tre medaglie; in cambio riceve venti lire dall’economo del riformatorio. Di lui si accorgono i fratelli Vittore ed Alberto Grubicy. Soprattutto il primo, pittore e mercante d’arte, diventa una presenza importante nella vita di Giovanni Segantini. È la sua guida, il suo tutore quasi; ottiene addirittura l’autorizzazione a firmare i suoi quadri.
Nasce poi la felice unione con Luigia Bugatti, chiamata dal maestro, Bice. La sua vita assumeva, giorno dopo giorno, un significato pieno; il suo spirito ribelle trovava gratificazioni nella dimensione artistica. La ricerca di sempre nuovi paesaggi, di occasioni pittoriche lo spingono verso il verde sereno della Brianza. Egli abita a Pusiano, poi a Carella e a Cornano. Nascono Gottardo (1882) ed Alberto (1883). All’Esposizione internazionale di Amsterdam gli viene assegnata la medaglia d’oro per la prima versione del dipinto Ave Maria a trasbordo. Nel marzo del 1885 nasce Mario; nell’autunno- inverno dello stesso anno egli vive a Caglio per realizzare quello che rimarrà forse il suo quadro più conosciuto, Alla stanga. Con questo dipinto, Giovanni Segantini ottiene un nuovo riconoscimento all’Esposizione universale di Amsterdam. Nel 1888, esposto a Bologna, il quadro verrà acquistato dal governo italiano per la somma di Lire 18.000.La partecipazione di opere di Segantini ad esposizioni internazionali a Londra e a Parigi accrescono la sua fama e la considerazione dei critici.
I suoi soggetti preferiti attingevano alla vita agreste, dove uomini e animali vivono una vita comune, immersi in una natura che è sempre e comunque amica: «Io continuo così a lavorare alla mia opera…accarezzando col pennello i fili d’erba, i fiori, gli animali e l’uomo». Tornano, nei suoi quadri, i temi del lavoro nei campi, del pascolo, della tosatura e della filatura, di una religiosità discreta, serenamente tradizionale. E proprio la ricerca di questi ambienti, splendenti di luce e di aria, lo porta, nel 1886, a trasferirsi con la famiglia (arricchitasi di Bianca) a Savognino, un villaggio delle Alpi grigionesi, a 1213 metri d’altezza. Qui la sua famiglia si accresce di una nuova presenza: una ragazzina di quattordici anni, Barbara Ufer, diventa la bambinaia dei suoi figli. Seguirà ovunque il maestro e la sua famiglia; sarà la modella per molti suoi quadri, sarà per tutti la Baba.
Giovanni Segantini intrattiene nel frattempo una fitta corrispondenza con artisti, giornalisti, studiosi; ed il suo esprimersi è caldo, immediato, cordiale. Pur nei limiti di una forma non sempre ortograficamente corretta, le sue lettere sono un miracolo di incisività, soprattutto se si considera che fino all’adolescenza egli era analfabeta. Nel febbraio del 1891, in “Cronaca d’arte”, appare un suo articolo, Così penso e sento la pittura. Egli incontra le simpatie e la stima del gruppo della Secessione viennese. La sua opera assumeva, nel frattempo, sempre più i caratteri di quella che diventerà la sua scelta definitiva: il divisionismo: «…e incomincio a tempestare la mia tela di pennellate sottili, secche e grasse, lasciandovi sempre fra una pennellata e l’altra uno spazio interstizio che riempisco coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciochè il dipinto resti più fuso. Il mescolare i colori sulla tavolozza è una strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità».
Giovanni Segantini continua intanto ad ottenere riconoscimenti per il suo grande ingegno artistico: Vacche aggiogate merita la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi nel 1889; altra medaglia d’oro ricevono nel 1892 Meriggio (a Monaco) e Aratura in Engadina (a Torino). In questi anni egli matura anche un proprio orientamento simbolista; entra in disaccordo con il suo nume tutelare, Vittore Grubicy; i contatti, soprattutto epistolari, si diradano. Si rafforza invece il rapporto con Alberto Grubicy che diventa il mecenate di Segantini. Nel 1894, assillato dai debiti, Segantini abbandona Savognino e si stabilisce a Maloja (1.800 metri), nello chalet Kuomi. Trascorre invece gli inverni in un albergo a Soglio. Continua a dipingere, a lavorare in modo incessante; assetato di cultura, acquista libri che la moglie pazientemente gli legge, mentre lui lavora al cavalletto.
Per l’ “Exposition internationale” di Parigi del 1900 egli progetta un’opera colossale: Il “Panorama dell’Engadina”, che avrebbe dovuto illustrare il meraviglioso paesaggio delle Alpi svizzere. Il progetto, che doveva ottenere l’aiuto finanziario degli albergatori engadinesi, viene abbandonato nel 1897 per scarsità di fondi. Giovanni Segantini non rinuncia comunque completamente al suo ambizioso disegno ed incomincia a lavorare al Trittico della natura.
Il ricordo di Arco e del Trentino non si era spento però nell’animo di Segantini. Egli, già nel 1890, aveva avviato un rapporto epistolare con Vittorio Zippel, editore ed anche podestà di Trento, che lo invita a passare qualche giorno nella sua terra natale. E Segantini risponde nell’agosto del 1891: «S’immagini, non passa un giorno che io non vi pensi; forse chissà che un giorno possa venire, ma vorrei vedere il sole sul mio paese, e non tremare; allora stia certo che la prima visita che farò sarà a Lei, in memoria dei suoi ripetuti inviti». Egli temeva infatti di figurare ancora cittadino austriaco, renitente alla leva, e di incorrere quindi, rientrando in Trentino, in qualche guaio giudiziario. Zippel si attiva, attraverso canali burocratici diversi, fino ad assicurare il maestro che nulla più ostava ad un suo viaggio in Trentino. Nel luglio del 1898 egli scrive a Vittorio Zippel: «Carissimo ed egregio amico, mai lettera mi fu più gradita della Sua ultima: sono dunque libero di entrare nel mio paese, nella patria mia, dopo più di trent’anni. Come ci volerei subito se mi fosse possibile; ma non mi è possibile; i gravi impegni presi per i miei lavori in corso me lo impediscono». Nel 1898 scrive anche all’ing. Carlo Marchetti, podestà di Arco: «Il ricordo del mio paese mi accompagnò sempre nella mia triste infanzia e fu come il sole interno la cui luce è ancora quella che illumina l’opera mia». Nello stesso anno invia un lettera da Maloja al dott. Tommaso Bresciani di Arco: «Tengo nelle mani parecchie opere alle quali lavoro accanitamente…e dovranno essere finite nell’aprile del 1899. Allora soltanto potrò concedermi la gioia grande di rivedere la mia patria ed il mio caro paese nativo e stringere la mano amica che Ella mi porge». In una conferenza tenutasi ad Arco nel febbraio del 1899, lo stesso dott. Bresciani annunciava: «E Arco sarà superba di accogliere e onorare questo cittadino che, partito orfanello povero e oscuro, ritorna cinto di gloria a rivedere il sogno della sua fanciullezza». Ma un tragico destino doveva impedire l’avverarsi di questo desiderio.
La sua ricerca di luce lo spinge il 18 settembre del 1899 a salire ai 2.700 metri dello Schafberg; per lavorare al suo grande capolavoro, Il Trittico. Quando già aveva cominciato a dipingere, un violento attacco di peritonite stronca purtroppo la sua forte fibra: Giovanni Segantini muore il 28 settembre, assistito dall’amico dottor Oskar Bernhard, dal figlio Mario e dalla sua compagna Bice.
Ugo Ojetti, grande critico d’arte e giornalista, nel commemorarlo a Trento qualche mese dopo, affermava: «La sua vita è stata uguale al suo sogno. La sua vita è stata sincerità…Gloriatelo, o Trentini, con monumenti e con inni…Ma più glorificatelo imitandolo nella tenacia della speranza perché uomini e città in tanto sono degne di vivere in quanto non perdono un solo minuto, nemmeno nella notte più fosca, nemmeno sotto i nembi più grevi, la speranza del sole».

Il Governo austriaco nel 1902 dedica a Segantini una splendida monografia illustrata, opera di Franz Servaes. Ernesta Bittanti Battisti scrive nel 1905 un saggio su Segantini che si conclude con questa affermazione: «Segantini non aveva ancor detta, in arte, la sua ultima parola. Si sarebbe forse trasformato ancora, unificando le sue qualità, ritrovando tutto se stesso, se la morte non avesse spento quegli occhi, che “sapevano” così bene la luce, e irrigidita quella mano che rapiva al sole i raggi per guidarli a brillare sulle tele». Nel 1909 si inaugura ad Arco il bel monumento a Giovanni Segantini opera dello scultore Leonardo Bistolfi. 


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Nel 1948 e nel 1949, a cinquant’anni dalla morte, si tengono conferenze sulla sua arte. Le vicende della sua vita vengono romanzate. Nel 1958, in occasione del centenario dalla nascita, viene organizzata ad Arco una mostra dedicata al maestro del divisionismo nello storico palazzo Marchetti, già dei conti d’Arco. Nel 1987 si tiene al Palazzo delle Albere, a Trento, una grande mostra antologica dedicata a Segantini.

 

“Dal Trentino all’Engadina”

conferenza della prof.ssa Annie Paule Quinsac
al Casinò Municipale di Arco – venerdì 28 maggio 1999

 

La mostra dedicata a Segantini presso la sede centrale della Cassa Rurale di Arco ha trovato una magnifica integrazione nell’intervento della prof.sa Annie Paule Quinsac, docente di Storia dell’Arte presso l’Università del South Carolina e massima esperta dell’arte segantiniana. Il suo “Segantini – Catalogo generale” rimane, e rimarrà, una pietra miliare nello studio del maestro del divisionismo, una miniera ricchissima a cui riferirsi per avere un’immagine esauriente dell’evoluzione nell’opera di Giovanni Segantini. Occorre ricordare anche un’altra sua opera «Segantini – Trent’anni di vita artistica nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati», da cui emerge un’inedita immagine di Segantini, tessitore infaticabile di rapporti epistolari con amici, critici, mercanti e pittori. Hanno fatto gli onori di casa il Presidente della Cassa Rurale di Arco – Garda Trentino, rag. Marco Modena, ed il prof. Romano Turrini.
Nel ricordare brevemente le vicende tristi che hanno contraddistinto l’infanzia e l’adolescenza del nostro illustre concittadino, la professoressa ha rimarcato come quelle esperienze di vita abbiano, senza dubbio, segnato il suo spirito e si siano successivamente manifestate anche nelle opere più mature. Quel desiderio della luce, dell’aria, della natura, della montagna, che egli riferiva al suo essere trentino, diventerà, mitizzato, una delle motivazioni principali che ispirarono la sua opera. La sua non è stata un’arte mite, ma, come diceva D’Annunzio nel poema che ricorda la morte di Segantini, era un’arte “dolce e rude” che fa di lui un pittore unico nel panorama della fine dell’Ottocento.
Egli passa nel suo dipingere da una pittura tonale, fondata sul contrasto fra il chiaro e lo scuro, ad una pittura che si basava sulla ricerca della luce nel colore, carattere primario dell’arte moderna.
La luce per Segantini è un elemento mistico che rende possibile l’armonia che si respira nelle “componenti” i suoi quadri; la luce è la relazione, è la manifestazione del divino nel creato.
Annie Paule Quinsac ha invitato i presenti a compiere, assieme a lei, un viaggio a ritroso nell’arte di Segantini, partendo da quello che lei ha definito il suo testamento incompiuto, “Il Trittico della natura”, opera pregna dei caratteri del naturalismo e del simbolismo, non contrastanti fra di loro, ma in sintonia. La professoressa ha ricordato che l’opera fu l’alternativa scelta dal maestro ad un progetto ancor più grandioso, promozionale per gli stupendi paesaggi dell’Engadina, destinato all’Esposizione universale di Parigi del 1900, e non realizzato, essenzialmente, per il venir meno dei necessari finanziamenti.
Il modo di dipingere la natura dentro la natura, applicato da Segantini era unico; egli costruiva una struttura che doveva sostenere e proteggere il cavalletto, avendo così la possibilità di rielaborare la sua opera “in fieri“, in un impegno che poteva durare mesi. Segantini non rappresentava, come gli impressionisti, la natura in un determinato momento ma la coglieva nella sua evoluzione, ispirato dal suo pensiero; un luogo della mente quindi, così come un luogo reale.
Annie Paule Quinsac ha sottolineato come i grandi quadri che compongono il Trittico diano la possibilità al visitatore di calarsi, di immergersi dentro il panorama rappresentato. Nelle tre opere compaiono riferimenti precisi al paesaggio dell’Engadina, uniti ad aspetti simbolici, prime fra tutte le nuvole. Basti pensare alla grande nuvola che sovrasta il paesaggio innevato della Morte, una nuvola particolare, che raramente ci è dato di osservare in cielo, ma che l’artista ricrea come segno premonitore di un destino arrivato al suo termine. Lo stesso studio delle nuvole che si riscontra ne La raccolta del fieno, nuvole chiare e soprattutto scure che incombono sul paesaggio ove la contadina non è presenza emergente, ma fa parte di una rappresentazione armonica.
La professoressa si è soffermata poi su due opere: Le cattive madri, un dipinto, l’altro Il castigo delle lussuriose, un graffito (o uno sgraffito), che fanno parte entrambe di un ciclo in cui la pittura di Segantini riflette chiaramente le sue esperienze di vita, le sue emozioni. Opere simboliste che non vennero accolte favorevolmente dalla critica del momento, se si eccettua l’ambiente viennese della Secessione. I toni di questi due quadri insistono sul blu, sul grigio e sul bianco creando una particolare atmosfera, livida e desolata, e suscitando particolari emozioni. Queste opere furono ispirate dal poema di Illica, Nirvana, legato, si diceva, ad influenze buddiste, ma in effetti alimentato nelle sue tematiche da un’opera d’epoca medioevale.
A Savognino, nel Canton Grigioni, Segantini realizza la rappresentazione solare de La ragazza che fa la calza, uno dei suoi capolavori. Questo quadro suscita emozioni che la Quinsac definisce “tattili”, con il vello delle pecore e l’erba del prato che sembra aspettino una nostra carezza. Viene in mente lo scritto del maestro: «..accarezzando con il pennello i fili d’erba, i fiori, l’animale e l’uomo». Così pure a Savognino Segantini realizzò le altre due opere su cui si è soffermata la professoressa: La portatrice d’acqua, calata entro uno scorcio che raffigura un cortile di casa, e poi Nell’ovile con la lampada che funge dal fulcro, che irradia luce tenue a delineare appena i contorni degli animali e la pastora. Mentre per il primo quadro Segantini ha dipinto a pennellate larghe, nel secondo si nota un fraseggio più minuto e quindi più vicino alla scelte divisioniste.
Lo schermo si è poi riempito della grande immagine dell’Ave Maria a trasbordo, tematica sviluppata per due volte da Segantini. È la seconda versione, quella del 1886, la migliore; Segantini la realizzò secondo le indicazioni di Vittore Grubicy che lo volle avvicinare alla tecnica del divisionismo. L’armonia, il senso di pace che regnano nel quadro, con i suoi protagonisti umani che possono essere assimilati ad una Sacra Famiglia, fa di quest’opera una delle più significative del periodo.
Annie Paule Quinsac è arrivata poi ai quadri in cui Segantini faceva uso della tecnica tonale, fondata sul contrasto fra chiari e scuri. Un gregge avanza, guidato da un pastore; se ne colgono appena i profili, delineati da una luce che sta alle loro spalle.
Singolare è poi la vicenda che accompagna l’opera A messa prima, nata originariamente con una certa intenzione narrativa e con un altro titolo: I commenti dei maligni. Nella prima “stesura” del quadro infatti Segantini aveva raffigurato una giovane donna che, accompagnata da un cagnolino, scendeva la scalinata che porta alla chiesa di Veduggio. Alle sue spalle, al culmine della scalinata, alcune figure mostrano di esprimere commenti maligni su di lei. Questa prima versione, esposta a Torino nel 1883, venne però modificata dal maestro che la giudicò forse un po’ banale; egli cancellò i protagonisti della scena, ed inserì invece la figura di un prete con la tonaca nera ed il cappello a tricorno che sale lentamente la scalinata. La professoressa Quinsac ha fatto notare come Segantini abbia modificato la reale collocazione della chiesa, operando una variazione speculare, liberando il culmine della scalinata da ogni presenza architettonica e dando quindi piena luce ad una scena che acquista così grande senso mistico: la scalinata in effetti non porta verso la chiesa, ma direttamente al cielo!
Come ultima immagine è stata presentata una natura morta, Funghi. La professoressa ha ricordato l’esperienza di Segantini come apprendista fotografo presso il fratellastro Napoleone a Borgo Valsugana; esperienza che gli deve essere servita nel catturare la realtà, così come essa si presenta, e quindi soprattutto nella realizzazione di nature morte.
E questo quadro è stato il punto di partenza per ritornare, questa volta secondo un ordine cronologico, a rivedere alcune delle opere più note di Segantini. È stata l’occasione per la professoressa Quinsac per aggiungere qualche altra considerazione o per sintetizzare quanto detto in precedenza.
Un pubblico, folto ed attento, ha seguito l’avvincente esposizione di Annie Paule Quinsac che si muoveva davanti ai grandi teli su cui erano proiettate le immagini dei quadri, dialogando quasi, vivacemente e intensamente, con le persone che nel buio della sala la stavano ad ascoltare.
Un successo quindi, che l’impegno, la scrupolosità e l’entusiasmo di chi ha organizzato la serata meritava. Si è riallacciato un rapporto con Annie Paule Quinsac che ha assicurato la sua presenza alla presentazione del volume “Arco ed il Trentino per Segantini”, in occasione della Rassegna dell’Editoria gardesana che si terrà a novembre. Ancora una volta la Cassa Rurale di Arco ha offerto alla comunità un’occasione per crescere dentro; e la risposta è stata, anche questa volta, positiva.