Nel paesaggio di Arco, ora disteso, ora arroccato, unico nella sua variegata complessità, entra, quasi prepotentemente, la rupe con il Castello. Qualsiasi orizzonte prospettico si voglia inquadrare ecco che la torre merlata (o la torre sommitale) attirano il nostro sguardo come una calamita. A quello che resta dell’antico maniero dei conti d’Arco va quindi d’obbligo il posto d’onore nell’illustrazione dei tanti monumenti di interesse storico ed artistico che Arco offre ai suoi abitanti e a chi la visita.
Cenni storici
Scriveva il notaio Ambrogio Franco (vissuto nel Seicento ad Arco) che ai tempi di Tiberio e Druso, i Romani avevano stabilito nel Trentino, in rapporto al diffondersi del brigantaggio, fortilizi un po’ ovunque, soprattutto sui monti e nelle chiuse delle valli. E poi aggiunge: “Ho sentito che dicono che nell’anno 512 d.C. Teodorico pose vicino al Benaco una torre sopra un’altissima rupe, sovrastante il Sarca”. Pur premettendo che la storia non può basarsi sul ´”ho sentito che dicono”, le due notizie forniteci dallo storico non sono prive di fondamento. Reperti archeologici, trovati in tempi diversi sulla rupe, attestano presenze più antiche rispetto all’epoca medioevale. Il nome stesso di Arco deriva da “arx” che significa fortezza.
È certo comunque che intorno all’anno Mille il Castello già esisteva, anche se non nella complessa strutturazione con torri ed edifici quale l’iconografia più tarda ci consegna. Esso era stato costruito dai “nobili liberi” con finalità soprattutto difensive. E quel “castrum” aveva dato il nome alla comunità che attorno alla rupe si era sviluppata (“universitas sita apud castrum Archi”), e alla famiglia che ne diventerà la padrona. Nel 1196 il nobile Federico d’Arco, figlio di Alberto, dichiarò pubblicamente che il Castello era bene allodiale degli abitanti della Pieve di Arco. A lui competeva soltanto il diritto di “immunità” e di “banno”, diritti già esercitati dai suoi antenati. Egli quindi poteva chiamare alle armi delle persone per difendere il Castello, aveva il comando militare all’interno della fortezza, curava la salvaguardia degli alloggiati, amministrava la giustizia; ma non era il proprietario del Castello, o perlomeno non di tutti gli edifici presenti. È possibile che i nobili d’Arco vivessero nella torre sommitale, chiamata “il castello vecchio”.
Fu questa parte di Castello infatti che Riprando d’Arco cedette ad Ezzelino da Romano, sanguinario signorotto veneto, che investì di questa proprietà Sodigerio di Tito, podestà di Trento e suo amico (1253). La vicenda ebbe però sviluppi imprevisti: Ezzelino morì, Riprando riacquistò la sua parte di Castello, ma venne incarcerato dai cugini insieme alla figlia Cubitosa. Riprando morì, ma Cubitosa riuscì a fuggire dalla fortezza; nel suo testamento la contessa nominò l’arcivescovado di Trento erede della sua parte di Castello. Seguirono lotte acerrime che si conclusero con la pace di Castel Tirolo (1272). Il Castello tornò ai d’Arco che ivi esercitarono la giurisdizione in nome del conte Mainardo II del Tirolo.
Nel 1349 il Castello venne ceduto dal Vescovo di Trento agli Scaligeri, ma una sollevazione popolare scacciò dalla rocca la guarnigione veronese affidandola a Niccolò d’Arco. Costui, abilmente, seppe placare le ire di Cangrande della Scala, succeduto nel frattempo al padre Mastino, ed ebbe la nomina a Capitano non solo di Arco ma anche delle Giudicarie e di Cavedine. Altri assalti si portarono al Castello da parte dei signori di Seiano, dei Lodron e dalle truppe della Serenissima. Il borgo venne preso, ma il Castello in ogni occasione resistette. Il complesso fortificato si ingrandì di molto; ogni ramo della famiglia infatti cercava di avere una residenza dentro il maniero. Venne così la fine del XV; nel 1495 Albrecht Dürer dipinse il Castello di Arco dando al suo acquerello il titolo di “Fenedier Klawsen”, chiusa veneziana, non perché la rocca appartenesse a Venezia, ma perché si affacciava su Riva, territorio occupato dalla Serenissima. Osservando attentamente questo dipinto si è consapevoli che il Castello era in effetti un piccolo villaggio fortificato. Nel Quattrocento e poi nel Cinquecento i conti d’Arco si costruirono più comode residenze attorno alla piazza di Arco ed il Castello cominciò a conoscere il proprio declino. Nel 1542 vi scoppiò un furioso incendio del quale venne inizialmente incolpato Nicolò d’Arco, poeta ed umanista. Per veder riconosciuta la propria innocenza il poeta si recò perfino alla corte imperiale di Praga.
Si stava intanto diffondendo il fenomeno del banditismo. La zona del Sommolago, quale fascia di confine, divenne terreno prescelto dai profughi, dalle schiere dei senza patria; i messi al bando divennero “banditi”. Molti di essi trovarono ospitalità presso il Castello dei d’Arco.
Nel luglio del 1579, l’arciduca del Tirolo Ferdinando II, con un’azione rapida ed incruenta, fece occupare dai suoi commissari il Castello di Arco e quello di Penede. Era intenzione dell’arciduca acquistare il Castello e le proprietà dei conti; le fece quindi stimare dai suoi commissari. Il lungo documento stilato da diversi esperti è una preziosa testimonianza circa la consistenza dei beni dei conti d’Arco e sulla strutturazione del Castello. Il progetto di acquisto venne però accantonato e nel 1614, dopo la stipula delle “Capitolate”, i conti tornarono ad Arco; la contea fu divisa in tre giurisdizioni: il Castello, Arco e Penede. Il conte cui era assegnato il Castello amministrava anche la giustizia.
Il Seicento rappresenta per l’antico maniero il “canto del cigno”. Nel 1635 l’arciduchessa Claudia impose ai sudditi di Arco di riparare il Castello e le mura di cinta alla città; dal 1665 al 1675 il maestro Stefano Voltolino ed i suoi lavoranti compirono numerosi interventi di restauro. Nel 1680 l’imperatore Leopoldo II assunse il controllo diretto del Castello, privando di ogni autorità i conti d’Arco.
L’inizio del XVIII secolo segna il totale declino del Castello. Come si è detto in precedenza, nell’ambito della guerra di successione spagnola, l’armata francese guidata dal generale Vendome penetrò nel Basso Sarca, strinse d’assedio Arco, conquistò la città, bombardò il Castello la cui guarnigione si arrese; era il 15 agosto 1703. La storia dice che, dopo la mancata conquista di Trento, le truppe francesi incendiarono e minarono buona parte dei castelli del basso Trentino. Ma un inventario del Castello di Arco, risalente al 1727 (24 anni dopo Vendome!), testimonia che molte delle torri e degli edifici avevano ancora il tetto ed i pavimenti in quadrelli. Un velo di oblio scese sul Castello di Arco che divenne meta di povera gente alla ricerca di una trave, di alcuni coppi, di una pietra ben squadrata. I conti d’Arco intanto si erano divisi in vari rami; vivevano in Arco, a Mantova e in Baviera. Nel dicembre del 1862 il governo austriaco emanò una legge sul passaggio dei beni feudali in beni allodiali; il Castello, diroccato, era proprietà in parti eguali dei due rami, quello di Monaco e quello di Mantova.
Nel 1879 il geometra Giuseppe Caproni, padre del pioniere dell’aeronautica Gianni Caproni, stese un progetto per interventi minimali di restauro al Castello per renderlo visitabile da parte degli ospiti del Curort. Altri lavori furono svolti ad inizio secolo per evitare soprattutto cadute di sassi sulle case sottostanti. Dopo il Primo Conflitto Mondiale la parte del Castello appartenente al ramo germanico dei conti d’Arco venne incamerata dal demanio italiano che la assegnò inizialmente all’Opera Nazionale Combattenti. Nel 1927 la contessa Giovanna d’Arco, marchesa di Bagno, lo acquistò diventando l’unica proprietaria. Nel 1982 l’atto finale: il Comune di Arco decide l’acquisto del Castello e di altri beni dalla Fondazione d’Arco in Mantova, erede della contessa Giovanna d’Arco. Il Castello tornava, dopo otto secoli, agli “uomini liberi” della Pieve di Arco.
Nel 1986 il Servizio Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento avviava radicali lavori di restauro.
Guida al Castello
La visita al Castello dovrebbe partire da lontano, dai resti di Arco, città murata. A Ovest del borgo, lungo via Fossa Grande (il nome ricorda la presenza di un fossato), due torri e qualche parte dell’antica muraglia sono quanto rimane della cinta muraria che proteggeva la città. Poco distante dalla seconda torre troviamo la porta di Stranfora, l’unica rimasta delle quattro esistenti. Si può entrare nel borgo oppure proseguire in direzione Làghel. La cortina di mura continua sulla sommità del dosso che fa arco al centro abitato e va ad innestarsi sulla rupe del Castello. Percorrendo una ripida stradina si arriva all’ingresso. Altre alternative per giungere al Castello sono la scalinata in prossimità della piazza di Arco o il sentiero che parte da piazzetta S. Giuseppe (sopra il bar una delle case più vecchie di Arco), nei pressi del ponte sul Sarca. Si arriva in entrambi i casi nella zona della “Costa”, il ripido pendio fra il Castello e la piazza; un sentiero panoramico fra gli ulivi conduce all’ultima rampa verso l’ingresso.
La prima parte dell’itinerario entro la cinta del Castello presenta una graditissima novità per chi varca per la prima volta quel portone. La presenza di due grandi prati, posti su livelli diversi, inimmaginabili per chi osserva la rupe dal basso. Possono essere considerati la “lizza” del Castello, ma non è improbabile che essi abbiano avuto, nel corso dei secoli, anche utilizzi “meno nobili”: pascolo per gli armenti o campo da coltivare. Un inventario dei beni mobili presenti nel Castello (1388) ed ereditati da Orsola d’Arco, vedova di Antonio, nomina, fra l’altro, 300 pecore, 6 buoi e 5 giumente.
La vasca per la raccolta dell’acqua ai piedi di una ripida parete rocciosa è stata realizzata alla fine dell’Ottocento, così come il parapetto che fa da protezione alla “curva del belvedere”. Lo sguardo comincia a spaziare sulla valle; sopra, la torre con i merli a coda di rondine ci appare, improvvisamente, molto vicina, imponente. Si può osservare chiaramente che i tre finestroni tardorinascimentali sono stati realizzati in tempi successivi.
Proseguendo il cammino e deviando a destra si visita la “prigione del sasso”, con copertura ad avvolto. Sopra di essa vi era un rondello, un bastione con pianta circolare.
Tornando sulla strada principale si arriva ad un primo edificio. Doveva essere la “sclosseraria”, la bottega del fabbro; lo attestano la mappa riportata nel Codice Enipontano e la nota di alcune riparazione compiute nel Castello, nel 1675. Diverse raffigurazioni del Castello la mostrano chiaramente, preceduta da un porticato. Sul lato opposto i lavori di restauro hanno messo a nudo la base di un potente contrafforte entro cui si apre una finestra; era la bocca di accesso ad una grande cisterna. Si comincia intanto a percorrere l’antica strada, pavimentata in pietre. Sul lato Nord si trova una vasca per la raccolta dell’acqua che scorreva nella canaletta scavata nella roccia.
Da sopra possiamo ammirare la base della grande cisterna realizzata in coccio pesto, con al centro uno svuotatoio. Sopra la cisterna sorgeva un grande palazzo collegato alla “Torre Grande” da una breve scala con gradini in pietra.
È da ritenere che la strada che si percorre non sia la più antica; ne esisteva con tutta probabilità una ad un livello più in basso.
Dopo aver superato la soglia di due delle sei porte esistenti nel Castello, si arriva sul retro della “Torre Grande”. Realizzata in epoca successiva rispetto alla torre sommitale, è alta circa 20 metri, mentre i lati sono di 12 metri circa. Singolare è il fatto che alle devastazioni di Vendome siano resistite perfettamente tre pareti mentre la quarta è andata completamente distrutta. In merito si può avanzare un’ipotesi: che la quarta parete fosse parte in muratura e parte in legno. Si noti infatti che, superato un certo livello, dalle pareti laterali non sporgono le pietre solitamente poste dai costruttori per meglio connettere fra loro le pareti formanti un medesimo spigolo.
Dall’interno si notano anche le chiusure delle antiche finestre effettuate per far posto ai tre grandi finestroni.
La torre era coperta da un tetto.
I coppi che si scorgono, lungo il bordo più alto, sono stati posti alla fine dell’Ottocento per proteggere le muraglie. A fianco della torre esisteva un altro edificio di notevole altezza. È rimasta la parete ad Est; nello spiazzo intermedio emerge un pilastro in sassi, a sezione circolare.
La strada termina in un piazzale pavimentato in quadrelli in cotto. In origine qui si trovava un edificio preceduto da un portico. Lo testimonia il lavandino in pietra fissato a strapiombo sulla rupe. Nell’angolo a Sud, in uno spazio ristretto, si nota la base di un grande forno circolare. Potrebbe trattarsi anche della stufa che alimentava l’impianto di riscaldamento a vapore, citato da Ambrogio Franco.
Sul lato Nord troviamo tre costruzioni, ricavate scavando la roccia. Nella prima è racchiusa una grande cisterna, parzialmente ricostruita; di pianta rettangolare (m. 9 per m. 3,50, h. m. 5). La si osserva dalla seconda stanza detta “del sartor”. Qui troviamo il pavimento originale e sul lato Nord la base di un grande focolare; sulla roccia si possono notare gli appoggi per i grandi legni della cappa.
La terza stanza è il gioiello che il Castello di Arco offre ai suoi visitatori: una sala quadrangolare (m. 5.60 x m. 6.50 – alta m. 3.20) con una sola finestra verso Est. Le quattro pareti presentano un prezioso ciclo di affreschi risalente agli anni a cavallo fra la fine del Trecento ed i primi decenni del Quattrocento.
Le varie scene rappresentano nell’ ordine: alcune dame che giocano a dadi, altri personaggi (anche Dante Alighieri?) che giocano a scacchi, una dama che raccoglie rose attorniata da due ancelle,S. Giorgio che uccide il drago, l’investitura di un cavaliere, una scena di battaglia, un lacerto con una scacchiera a riquadri romboidali poi, staccato dal resto degli affreschi, il riquadro con due altre dame che giocano a scacchi. Un ultimo dettaglio pittorico merita attenzione; il volto (di un trombettiere?) in alto, a lato dell’ingresso. In questi affreschi spiccano volti con espressione di grande dolcezza, che sfuggono all’immobile fissità di altri affreschi coevi, presenti in chiese di Arco. La mano che dipinse questi affreschi era esterna quindi all’ambiente locale; una traccia potrebbe essere rappresentata da una lettera spedita nel 1380 da Antonio d’Arco al Duca di Mantova Ludovico Gonzaga, con la richiesta di concedere al pittore Graziolo il permesso di venire ad Arco, per un certo tempo. Ma forse questi affreschi sono posteriori a quella data.
Il pavimento è in cotto a lisca di pesce; nell’angolo di Sud-Est era presente un caminetto; sulla parete si coglie la traccia dell camino. Questa stanza è chiamata in almeno due documenti riguardanti il Castello “la stuetta dove morì l’ill.mo signor conte Galeazzo”.
All’esterno rimangono da osservare, al termine del camminamento sul lato Est, i resti del pavimento delle “comodità” a strapiombo sul precipizio.
Per continuare la visita al castello occorre percorrere il largo sentiero che costeggia la cinta muraria sul lato Ovest della rupe, non prima di aver osservato ciò che resta di altri edifici, a monte della Torre Grande. Fra essi doveva probabilmente esserci la chiesa di S. Maria Maddalena; un tratto di fregio in pietra con scena biblica, proveniente da questa cappella, si trova ora presso il Museo Diocesano di Trento.
Si noti come, sfruttando una grande frattura nella roccia, si sia ricavata un’alta cantina, coperta da una perfetta volta in sassi.
Come si è detto, l’itinerario nel Castello prosegue sul lato Ovest fino a giungere alla Torre di Làghel. A metà circa di questo tratto di mura è presente un’apertura; era il passaggio per il sottostante bastione, realizzato con grandi massi squadrati. Vi sono anche tracce del basamento di una modesta fortificazione raffigurata nel dipinto del Dürer.
Dalla torre di Laghel l’occhio può spaziare sul magnifico anfiteatro del Collodri e del Baone che digrada dolce con i terrazzi coltivati ad olivi e viti, oppure spingersi verso Nord lungo l’asse del Sarca.
Si sale ancora fra i lecci ed i cespugli di pungitopo fino ad arrivare all’ultima cinta di mura, eretta a protezione della Torre Renghera. Il nome deriva dalla presenza sulla torre di una campana, la cosiddetta “renga”; essa serviva per chiamare a raccolta i cittadini.
La scalinata scavata nella roccia risale al XIX secolo; l’unico accesso alla torre era infatti collocato ad una certa altezza ed era raggiungibile tramite una scala di legno che, in caso di assedio, veniva rimossa. La torre presenta lo spigolo verso Arco nella direzione a “frangivento”. Nello spazio circostante vi è la terza cisterna, ricostruita durante gli ultimi lavori di restauro.
Dalla torre scende il rivellino, a dividere in due la parte più alta della rupe; questo muro doveva costituire un ulteriore sistema di difesa in caso di penetrazione del nemico dal lato Ovest.
Il ritornare sui nostri passi ci farà osservare sicuramente altri dettagli, altri scorci dove la natura e la storia fanno quasi a gara per catturare il nostro interesse e la nostra ammirazione.