Le fonti storiche che presentano Arco come comunità socialmente organizzata risalgono all’epoca medioevale, ma tracce di civiltà più antiche sono state ritrovate e continuano tutt’ora ad emergere. Reperti archeologici (i più importanti in località Moletta-Patone) attestano insediamenti preistorici risalenti all’età mesolitica e neolitica. Le statue-stele antropomorfe, riportate in luce recentemente e risalenti all’età del Rame, indicano la presenza di un luogo di culto di importanza sovraregionale. La romanità arrivò nel Sommolago probabilmente nei primi decenni dopo Cristo e lasciò segni indelebili. Tombe, perimetri o pavimenti di ville romane, lapidi incise, sarcofagi, monete sono stati rinvenuti a più riprese ed in epoche diverse. Sulla valle i Romani stesero poi il grande reticolo della centuriazione delle terre e della viabilità, che ancora oggi possiamo riconoscere; il territorio era legato a Brescia e alla dominante gens Fabia.
In epoca longobarda troviamo ricordati Arco ed altri luoghi vicini in un documento del 771 d.C.; si tratta di una permuta di beni fra Angelsperga, badessa del Monastero di San Salvatore di Brescia, ed Andrea chierico da Sirmione, mentre regnavano Desiderio e suo figlio Adelchi: “…a Summo laco id est terra de domo cultile in vico que nominatur Arquo…”.
Si arriva al Medioevo con il borgo che nasce e si sviluppa sulla destra del Sarca, cingendosi di mura e chiudendosi a semicerchio attorno alla collina dominata dal Castello.————–
E tale luogo protetto, edificato dagli uomini liberi, ebbe inizialmente il ruolo di rifugio della popolazione in caso di grave minaccia. Esso poi passò in proprietà alla famiglia più potente, gli Arco; siamo circa nel XII secolo ed il sistema feudale trova nella contea la sua piena applicazione. Ma la comunità, composta di artigiani e di contadini, con presenze borghesi sempre più importanti, creò la realtà comunale, dandosi degli Statuti e contrastando in talune occasioni lo strapotere dei conti d’Arco. E le regole comunali sono lo specchio fedele di una società che proteggeva la propria natura, fonte di vita e di sostentamento economico, che si dava norme elementari per una pacifica convivenza, che produceva biade, vino ed olio, che realizzava molini, torchi, fucine e concerie.
L’attuale territorio comunale era diviso in tre comuni: Oltresarca, Arco e Romorzollo e questa divisione durerà fino al 1928.
L’ epoca rinascimentale vide crescere attorno alla piazza i magnifici palazzi dei conti d’Arco; il casato allacciò rapporti con le principali famiglie della nobiltà lombarda e veneta:
i Gonzaga, i Martinengo, i Serego-Malaspina, i Collalto. Attorno alla grande figura di Nicolò d’Arco si svilupparono sensibilità letterarie ed artistiche. Venezia sfiorò e poi combattè in Arco ma non la integrò nei suoi domini.
Nel 1579 i conti d’Arco vennero esautorati dai loro poteri sulla contea per volere dell’Arciduca del Tirolo Ferdinando che riteneva intollerabile il comportamento “banditesco” di alcuni di loro. Nel 1614 i conti rientrarono ad Arco, dopo aver sottoscritto le “Capitolate”, patti che avrebbero dovuto regolare più rigidamente i rapporti con l’autorità superiore e con la realtà comunale.
Fu in questi anni che le comunità della contea si impegnarono nell’impresa grandiosa della realizzazione della magnifica chiesa collegiata di Arco.
Si arriva così all’estate del 1703; nell’ambito della guerra di successione al trono di Spagna, le truppe francesi del generale Vendome strinsero d’assedio Arco, penetrarono nel borgo e costrinsero alla resa la guarnigione che difendeva il Castello. L’antico maniero venne bombardato e gravemente danneggiato. Da quel momento esso sarà abbandonato al suo destino di rudere, fino ai lavori di restauro compiuti
di recente. I decenni passarono lenti con il ritmo sempre uguale dei lavori nei campi, legati all’alternarsi delle stagioni, con le decime da versare ai conti e agli arcipreti, con le “steore” dovute all’impero. Arco era città chiusa ed i tentativi di portarla in nuovi ambiti produttivi, indicati dall’ Illuminismo, non ebbero successo; la “Fabbrica dei Panni” che dava lavoro a più di quattrocento persone ebbe solo qualche anno di vita. I luoghi di produzione (molini, torchi, fucine) erano sempre proprietà dei conti d’Arco, che nel frattempo si erano trasferiti in Baviera e a Mantova. In Arco rimaneva un solo nucleo della
grande dinastia. Occorre arrivare alla metà dell’Ottocento per vedere il volto di Arco cambiare radicalmente.
Per iniziativa di una borghesia imprenditoriale che assunse sempre più il ruolo guida della comunità, la città si espanse oltre le mura che in massima parte vennero abbattute e si favorì la rettifica o la creazione di una nuova viabilità per facilitare le comunicazioni e gli scambi commerciali.
Verso il 1872 si intuì che lo sviluppo economico di Arco poteva dipendere dal proprio clima, così mite soprattutto nel periodo invernale: nacque il Luogo di Cura, il Kurort.———————– Imprenditori di Arco e poi austriaci e germanici si attivarono per creare ville (circondate da magnifici giardini), alberghi, luoghi d’incontro, giardini pubblici; ad Arco arrivò il “trenino”, la ferrovia Mori-Arco-Riva. L’economia locale ne trasse grande beneficio.
Motore e calamita di questa piccola rivoluzione fu l’Arciduca Alberto d’Asburgo, cugino dell’imperatore Francesco Giuseppe. Egli decise di realizzare in Arco la propria residenza invernale, la grande Villa Arciducale. Attorno all’edificio si sviluppò un parco lussureggiante di specie arboree mediterranee ed esotiche ed un razionale frutteto. Un’altra presenza significativa fu quella dell’esiliato re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, amico dell’Arciduca. Entrambi passeranno i loro ultimi giorni in Arco.
Le direttrici dello sviluppo urbanistico di Arco si rivolsero verso Sud e verso Ovest, con viali alberati, su cui si affacciavano le ville dell’alta borghesia austriaca e germanica. Ci si accorse poi che il clima di Arco procurava effetti benefici nella cura delle malattie depressive e polmonari. L’aria pura, le lunghe passeggiate nel verde, i concerti e le letture nelle sale del Casinò, erano l’offerta che Arco porgeva ai suoi ospiti. Vennero stampate le prime guide turistiche per visitare ed apprezzare Arco e dintorni.
Qualche villa o qualche albergo si trasformò, silenziosamente, in casa di cura per le persone affette da “mal sottile”. Fu l’epoca delle importanti frequentazioni, fedelmente riportate nelle Curlisten. Il primo conflitto mondiale interruppe quest’epoca felice, e al tempo stesso malinconica, che assisteva consapevole al proprio declino.
La deportazione delle popolazioni locali verso l’Austria, la Moravia o la Boemia segnò quasi una linea di spartiacque fra quest’epoca e la successiva: si partì sudditi austriaci e si tornò in Arco italiana.
Poi vennero anni di fame e di miseria da cui ci si risollevò grazie alla cooperazione in agricoltura e alla nascita del centro sanatoriale. Arco diventò uno dei più importanti centri nazionali per la cura della T.B.C.. Così fino agli anni Cinquanta. Erano sorte nel frattempo alcune industrie; furono lo zoccolo su cui prese piede uno sviluppo industriale sempre più consistente. La più facile curabilità della tubercolosi portò la chiusura dei molti sanatori; gli edifici vennero trasformati in case di cura, in alberghi o case di abitazione; altri ancora stanno attendendo un adeguato recupero strutturale.
Ora l’economia di Arco si fonda in modo equilibrato su tanti settori: il commercio, il turismo, l’industria, l’agricoltura. Forte comunque è la consapevolezza che dal passato si possano trarre motivi per rendere Arco sempre più vivibile per chi vi risiede e più ospitale per chi vuol soggiornarvi.