Nicolò d’Arco

Poeta ed umanista

“AIter ut in terris niteat demissus Olimpo est Arcus,  sitque hominum foedus ut ille Deum”.

“Dall’Olimpo calò un secondo Arco nel mondo: esso, come  l’antico, gli uomini unisca e il Cielo”.

In questi versi, ritroviamo il legame che stringeva forte  Nicolò d’Arco alla propria città, al borgo ove era nato il  30 giugno del 1479; Arco come segno d’alleanza fra gli  uomini e il divino, come oasi di pace e di serenità.

Il padre di Nicolò fu Odorico, capostipite di una linea  del casato dei d’Arco. Sua madre fu, senza dubbio, Cecilia  Gonzaga, nipote del marchese Ludovico II; la nobildonna però morì un mese dopo aver dato alla luce Nicolò. Suo  padre si risposò allora con Susanna, contessa di Collalto,  ed ebbe altri figli. Due in particolare, Paolo e Geronimo,  furono vicini a Nicolò durante la loro vita.

Egli fu studente universitario a Pavia dove conobbe poeti  ed umanisti; furono anni di vita intensa, di passioni  amorose. Flavia, Philena, Lalage, Neaera divennero  protagoniste delle sue prime composizioni poetiche.

Egli si trasferì poi a Bologna dove conobbe Bernardo Clesio, che diventerà poi principe vescovo di Trento. Anche a questo illustre protagonista del Rinascimento  trentino Nicolò dedicò carmi d’occasione. Nel 1520 egli  sposò Giulia Gonzaga del ramo di Novellara; il suo legame  con Mantova si fece ancora più forte, ma probabilmente fu  ad Arco, nel palazzo del Termine, che egli visse con  maggior assiduità, circondato da amici letterati. Nel 1542  un episodio tristissimo tolse a Nicolò la serenità  dell’animo che fin ad allora aveva sempre contraddistinto  la sua vita: nel Castello di Arco scoppiò un incendio  doloso e di tale misfatto vennero accusati, ingiustamente,  Nicolò e i suoi fratelli. Le sanzioni stabilite nei suoi  confronti da Ferdinando d’Asburgo lo amareggiarono  profondamente; egli passò i suoi ultimi anni di vita a  chiedere giustizia, persino alla corte imperiale. La sua  morte probabilmente risale al 1546.

In quello stesso anno le sue composizioni migliori vennero  pubblicate in Mantova dallo stampatore Ruffinello, a cura  di Giovanni Frutticeno che intitolò il volume “Numeri” e  lo dedicò al figlio primogenito di Nicolò, Scipione  d’Arco.

Nei suoi versi ritroviamo le passioni d’amore, la satira,  la descrizione bucolica, l’affetto per gli amici, il  desiderio di pace, la gioia di vivere; il tutto sorretto  da una vasta e profonda cultura umanistica. Come scrisse   Antonio Pranzelores, “..egli, aiutato anche dalla fantasia  poetica varia, vivace, abbondante, trattava con maestrìa  gli argomenti più disparati, dal grave al leggero,  dall’eroico all’intimo, dal tragico al burlesco e al satirico”.

I suoi versi sono senza mediazioni, rispecchiano il suo  animo e la sua mente, ingenuamente spontanei:

“Sit mihi  candor Mentis; et omnis Invidia absit”.

“Sia la mia mente  giusta, ed ignota le sia l’invidia”. Questo è uno dei  messaggi più belli che ritroviamo nei versi di Nicolò  d’Arco, uomo di cultura e di pace.